Ho notato che nel fruire del pensiero di qualcuno, può accadere che ci si trovi in linea o meno con i suoi contenuti. È soggettivo. Può dipendere da tanti fattori come ad esempio la “stima” che nutriamo nei confronti del soggetto esprimente o, più in generale, da quanto sappiamo di lui (ossia quanto di ‘ciò che sappiamo di lui’ riconduce in qualche modo alla nostra esperienza personale) ovvero quanto di ciò che ci è comunicato ci risuona, si accorda, in altre parole, al nostro pensiero, il quale è sempre figlio delle nostre esperienze. Il solo caso in cui non si può non accogliere quanto ci è riferito è il racconto di un’esperienza. Qui si potrà credere o meno all’esperienza vissuta da altri ma, se non si ha motivo di dubitarne, non si potrà non accogliere il contenuto riferito come qualcosa di oggettivo. Non si tratta più, insomma, di un opinione personale ma di un fatto narrato. Se poi l’esperienza è vissuta da noi stessi direttamente, essa è per noi inconfutabile e produce sempre una trasformazione.
Da qualche tempo pratico meditazione zen. Il termine giapponese Zen (per chi non avesse mai approfondito l’argomento) riconduce direttamente al termine cinese Chan:
Chán (cinese classico 禪, lettura giapponese zen) è il tentativo di imitare il suono della parola
sanscrita dhyāna con un ideogramma. In questo caso l’ideogramma funziona da fonema e non da epistema, ovvero è un segno latore di suono mentre il suo significato in cinese (letteralmente: “altare spianato'” o, anche: “abdicare”) non ha alcuna importanza. Tuttavia, fanno notare alcuni autori, sebbene 禅 sia stato scelto per ragioni fonetiche per imitare il suono prodotto dalla parola dhyāna e non per il suo significato, il segno 禅 è composto, a sinistra, da 示, letto shì, e a destra da 単, letto dān, il primo significa “indicare, puntare a, mostrare”, il secondo vuol dire “solo, unico, semplice, singolo”, perciò intendendo assieme il senso delle parti, potremmo dire che 禅 contenga il significato complessivo di “mirare al massimo di semplicità” o “puntare all’uno”. [fonte Wikipedia]
In questo tipo di pratica ci si esercita ad orientare il proprio sguardo (che però non è inteso come vista ma, più in generale, come attenzione) verso sé stesso. Si punta a creare un “loop”, uno stato mentale detto autoreferenziale. In altri termini la nostra attenzione cessa di esaminare gli stimoli provenienti da tutti e cinque i sensi, prende distanza anche dai contenuti logici della nostra mente, e si orienta infine verso sé stessa.
Ebbene qualche tempo fa, con la guida di esperti Maestri e praticanti, ho intrapreso un percorso di studio di questa disciplina. In ogni percorso non si può prescindere dal praticare anche privatamente e con costanza e ciò stato fatto. Durante una di queste meditazioni, nel preciso istante in cui ho iniziato a realizzare questo tipo di visione, tutto quanto il sentito (inteso come prodotto dei sensi) è andato a farsi friggere, ha perso gradualmente di intensità fino a divenire incolore. Ciò che sapevo essere “me stesso” si è trovato al cospetto di un Tutto mescolato e dunque, in qualche modo, anche di sé stesso. Sono stato immediatamente assalito da una serie di emozioni tali da perturbare la condizione di grande concentrazione raggiunta e questo ha determinato anche l’immediata interruzione della sessione di pratica.
Quanto sperimentato era comunque bastato a lasciarmi senza parole, incapace di comprenderne il senso più profondo. Vedere (ripeto, “non in senso stretto”) che Tutto, ma Tutto davvero, è riconducibile a qualcosa di unico, solo e indescrivibile, vedere come ogni nostra emozione, relazione, sensazione o pensiero è sempre e comunque a valle di ciò, comprendere come nulla prescinde e risulta escluso da questo Ente che si manifesta allorquando l’Osservato coincide con lo ‘sguardo‘ che osserva, lascia a dir poco interdetti ed obbliga, come minimo, a fare qualche riflessione su ciò che si crede di aver compreso della Vita. Continuerò a praticare per cercare di raggiungere, se mi sarà dato, stati più profondi di concentrazione ma intanto il già sperimentato mi stimola quotidianamente a riflettere per meglio comprendere.
L’ultima riflessione scaturita a seguito di altre esperienze quotidiane (emozioni, piacevoli o meno, come gioie, desideri appagati, momenti di felicità o delusioni, piccoli rancori, dolori, dispiaceri in genere) ma sempre in accordo con quanto sopra descritto, riguarda l’interpretazione che l’uomo tende a dare al proprio vissuto al solo fine di comprenderlo. L’uomo occidentale cerca infatti sempre di comprendere ciò che gli accade e di giustificarlo: se è felice crederà di esser stato premiato oppure, al contrario, se gli capita qualcosa di brutto di essere stato punito. Personalmente, invece, il fatto di essermi trovato, non appena sono riuscito a prendere distanza da interpretazioni soggettive, di fronte a qualcosa di incolore mi ha fatto riflettere tanto.

Il disco di Newton
Ho ricordato ad esempio l’esperimento di Newton sulla percezione dei colori. Questi riportò su un disco settori colorati di tono e ampiezza proporzionali a quelli presenti nello spettro di luce allorché rifratto. Ruotando velocemente il disco notò come tutti i colori venivano percepiti dai nostri occhi come un’unica tinta neutra, tendente al grigio. Parimenti chiunque abbia giocato con dei colori in pasta, siano essi tempere, olii o acrilici, forse avrà notato che più se ne mescolano, più la tinta si spegne e tende al grigio. Lo stesso risultato si otterrebbe se ad essere ruotato velocemente fosse il simbolo del Tao, di per sé per metà bianco e per metà nero.
-
Donna con le braccia incrociate – Pablo Picasso (1902)
Se parlo di colori è perché tutti noi sappiamo che in linea col proprio vissuto, ciascuno potrebbe attribuire alle proprie esperienze un colore o, quanto meno, una tinta: chiara o scura che sia. Al rosso è generalmente ricondotta ogni esperienza di natura passionale-erotico-sentimentale, al blu la tristezza, la malinconia, in altre parole, ogni esperienza in cui siano assenti i requisiti presenti nella prima ‘famiglia’ di esperienze. Al verde, il colore predominante in natura in primavera, è spesso associata la speranza del ripetersi del miracolo della nascita. Insomma, ad ogni colore potremmo associare un vissuto e viceversa. Sentirsi animati, dunque, da una grande energia, pervasi dal calore di emozioni positive, innamorati, influenza anche la nostra percezione del mondo e della vita che ne risulta magicamente tinta di colori caldi, il tutto ci appare come visto attraverso un filtro giallo-arancio. Quando, però ci troviamo a contemplare l’Essere al riparo da influenze emotive o razionali, se si riesce autenticamente a realizzare questa visone, il tutto ci appare mescolato ed inevitabilmente cromaticamente neutro. Da qui si può facilmente concludere che “Tutto è“, indipendentemente dai nostri giudizi individuali, ed “è ciò che è” a prescindere che lo si giudichi bello o brutto esso comunque “è”. Ciò può risultare difficile da accettare, considerata la nostra naturale tendenza a non voler soffrire, a non voler star male. Una volta accettato questo però si smette di credersi vittima del destino o baciati dalla fortuna e ci si vede meglio come sguardi immersi in un caotico Tutto fatto di tutto, talvolta sintonizzati su certe frequenze talvolta su altre. Questa, almeno, è la mia opinione.